
Resta meno di un mese per visitare la mostra al Museo di Roma dedicata ad Artemisia Gentileschi, una delle figure femminili più importanti dell’arte a cavallo tra Cinquecento e Seicento. L’unica davvero ricordata, a pensarci bene.
La mostra sulla grande pittrice italiana offre lo spunto per una riflessione sulle donne artiste e sulle loro spesso travagliate esistenze. Il mestiere dell’artista, si sa, è un percorso irto di sacrifici e, di tanti che ci provano, quelli che raggiungono effettivamente la fama si contano sulle dita. Questo discorso vale ancora di più per le donne in un mondo, anche questo, dominato da figure maschili.
Se l’arte è una lotta, per il gentil sesso lo è stata in maniera particolarmente dura. Sarà questo il motivo per cui nelle opere artistiche femminili emergono spesso toni estremamente violenti o di forte drammaticità?
La violenza non solo permea le opere di alcune tra le più grandi artiste di sempre ma spesso ne caratterizza anche le vicende biografiche. Un primo esempio è proprio rappresentato dalla stessa Artemisia Gentileschi, Il momento cruciale della sua vita fu lo stupro subito da parte di un amico di famiglia. Il processo che ne seguì fu tremendamente umiliante per la pittrice: per essere creduta nella sua deposizione contro l’uomo fu costretta a sottoporsi alla tortura dello schiacciamento dei pollici!

Giaele e Sisara, 1620. Del processo che coinvolse Artemisia è rimasta esauriente traccia documentale,tra cui un resoconto scritto della testimonianza della pittrice, che colpisce per la sua crudezza.
Non c’è da stupirsi se i soggetti delle sue tele sono eroine crudeli come Giuditta, nel famoso quadro in cui taglia la testa di Oloferne, o Giaele che, con una grazia del tutto femminile, si appresta a piantare un chiodo nella testa di Sisar addormentato. Quella di Artemisia fu una vendetta che ebbe luogo interamente nei suoi dipinti.
Che dire di Frida Kahlo il cui dolore è una componente fondamentale delle sue tele quasi quanto i colori stessi?
Claudicante sin da piccola a causa della poliomielite, si trovò a confrontarsi con la crudeltà del destino a 18 anni quando un incidente stradale la segnò definitivamente: l’autobus su cui si trovava fu investito e schiacciato da un tram, che le frantumò colonna vertebrale e bacino.
È lei stessa la martire di tutti i suoi quadri, il suo corpo dilaniato ha una crudezza immediata e straziante.

Unos Cuantos Piquetitos, 1935. Nella vita tormentata di Frida Kahlo al dolore fisico si aggiunse anche quello amoroso. È nota la storia travagliata con Diego Rivera, che la tradì ripetutamente, anche con la sorella.
Nelle interviste, Louise Bourgeois è estremamente chiara quando afferma che l’infanzia è la chiave di lettura delle sue opere. Un’infanzia, purtroppo, tutt’altro che facile.
Quando era ancora piccola (nacque nel 1911), il padre partì per la Prima Guerra Mondiale, lasciando in lei un grande vuoto. Quando poi tornò, le sembrò totalmente cambiato, segnato da 4 anni passati al fronte: era diventato un uomo rude, che frequentava bordelli e tradiva la moglie addirittura in casa, con l’insegnante d’inglese dei figli.

Harmless Woman, 1969. Bourgeois racconta un episodio dell’infanzia in cui suo padre, di fronte a degli amici, la sbeffeggiò per essere una bambina e non possedere il membro maschile. La cosa la colpì fortemente. Nelle sculture gli organi sessuali sono pronunciati, dando vita a figure deformi e a volte sessualmente ambigue se non decisamente ermafrodite.
Marina Abramović si definisce la “Grandmother of performance art“. Appartiene a quella categoria d’artisti che, nel Secondo dopoguerra, portarono in auge la body-art, un’arte performativa che ha a che fare direttamente col corpo. Gli artisti usavano l’attacco diretto al proprio fisico come forma di protesta contro una società fondata sulla violenza.
L’Abramović è stata una rappresentante estrema di questa corrente. In una performance del ’74, mise a disposizione dei visitatori vari oggetti, armi proprie o improprie, lasciandoli liberi di usarli contro di lei mentre rimaneva ferma nella galleria. La performance dovette interrompersi quando un visitatore le puntò contro una pistola.

Light/Dark, 1977. Marina lavorò molto in coppia con il suo compagno di allora, l’artista tedesco Ulay. In questa performance i due continuano a prendersi a schiaffi l’un l’altro. Metafora di un sano rapporto di coppia?
Guarda la gallery completa
Immagine di copertina: Giuditta e la sua ancella, Artemisia Gentileschi, 1615